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Quando un impasto è più digeribile?
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Pubblicato da Giuseppe Bagnato- Foodhubmagazine · 22 Novembre 2019
Uno degli argomenti più dibattuti nel mondo del web, tra i forum di appassionati di cucina e, più nello specifico, tra gli appassionati dell’arte bianca, è la correlazione tra lievitazione e digeribilità di un impasto. Si legge infatti spesso di una possibile correlazione tra l’utilizzo di impasti a lunghe ore di lievitazione e/o di lievito madre con la digeribilità del prodotto finito. Proviamo allora ad analizzare i due processi singolarmente e a definire in modo chiaro e conciso quali sono e cosa comportano tutti i processi che ruotano intorno ai nostri prodotti lievitati.
Digestione?
Per «digestione» si intende “l’insieme dei processi meccanici e chimici (masticazione e insalivazione, imbibizione di succo gastrico e pancreatico, trasformazioni idrolitiche ed eliminazione, con le feci, dei residui non digeriti) che avvengono nell’apparato digerente per rendere gli alimenti utilizzabili ai fini della nutrizione” [1].
Nello specifico, la digestione dei carboidrati (principale costituente del frumento, ≃ 70%) inizia nella cavità orale per azione dell’α-amilasi salivare. Qui l’amido parzialmente idrolizzato porta alla formazione di destrine, maltosio e maltotriosio.
Successivamente, nell’intestino, le destrine, ad opera delle amilasi pancreatiche e dell’enzima deramificante, vengono completamente idrolizzate portando alla formazione di maltosio e glucosio. Infine, agisce la maltasi che idrolizza il maltosio, portando alla formazione di due molecole di glucosio (monosaccaride).
Le proteine (rappresentanti ≃ 9-16% del frumento), invece, subiscono un’idrolisi da parte degli enzimi proteolitici prodotti da stomaco, pancreas e intestino tenue. Questi ultimi rompono i legami peptidici e portano alla formazione di amminoacidi liberi e piccoli peptidi.
La digestione delle proteine comincia nello stomaco con la pepsina, continua a livello dell’intestino con l’intervento delle peptidasi pancreatiche e termina con le amminopeptidasi secrete dall’intestino tenue.
Infine, la digestione dei grassi (che rappresentano ≃ 1,5-2% nel frumento) ha inizio nella bocca con la lipasi salivare per poi continuare nell’intestino grazie all’azione della lipasi pancreatica, del colesterolo esterasi e della fosfolipasi A2 [2].
Sulla base di quanto detto sopra, il nostro organismo, indipendentemente dalla scomposizione incontro alla quale possono andare i macronutrienti, mediante processi fisici, chimici o microbiologici sarà comunque in grado di digerire carboidrati, proteine e lipidi. L’organismo è in grado di digerire la pasta che, secondo il D.P.R. n. 187 del 9 febbraio 2001, deve essere prodotta esclusivamente con farina di grano duro e acqua e non è sottoposta ad alcun processo di lievitazione [3].
Il riso, la cui composizione è rappresentata per circa l’80% da carboidrati, per circa il 7% proteine e per circa lo 0,5% lipidi, è considerato un alimento facilmente digeribile.
L’elevata digeribilità del riso è dovuta anche alla presenza di granuli di amido molto piccoli (circa 20 volte più piccoli rispetto a quelli del frumento), ciò facilita il contatto con gli enzimi intestinali e di conseguenza la digestione [4]. Lo stesso polisaccaride (amido) in due alimenti differenti è più digeribile in uno piuttosto che in un altro.
Sulla base di questi due esempi, pertanto, cosa si intende effettivamente per “migliore digeribilità”? E soprattutto, considerando che un prodotto più digeribile (es. con elevata presenza di carboidrati semplici) comporta un maggiore aumento della glicemia, “più digeribile” è sinonimo di “migliore”?
Proviamo ora a capire cosa avviene durante il processo di lievitazione e quali modifiche vengono apportate alla matrice alimentare, e soprattutto se si va incontro a un miglioramento della digeribilità del prodotto finale.

Lievitazione?
“Fase del processo produttivo associata a una forte espansione, pari a più volte il volume originale della massa, resa possibile dalle proprietà viscoelastiche dell’impasto e dalla presenza di sostanze emulsionanti (endogene o esogene) che stabilizzano le bolle di gas” [2].
Esistono diversi tipi di lievitazione: biologica, chimica, fisica, con vapore acqueo, sistemi misti. In questo articolo prenderemo in considerazione la lievitazione biologica che avviene per mezzo del lievito compresso composto da cellule viventi per lo più di Saccharomyces cerevisiae, o del lievito naturale composto da lieviti e batteri lattici endogeni della farina, ai quali si aggiungono quelli di derivazione ambientale [2].
La lievitazione biologica si divide in diretta e indiretta (Fig. 1).
Fig. 1 - Diagramma di panificazione con metodo diretto e indiretto [5]



Lievitazione biologica diretta
Lievitazione diretta: tutti gli ingredienti vengono impastati contemporaneamente e poi lasciati lievitare. La fermentazione deve avvenire in almeno due fasi.
La prima, detta “puntata”, è effettuata su grandi masse per periodi da 30 minuti a 3 ore. In questa fase l’obiettivo è quello di indurre importanti cambiamenti reologici nell’impasto. In particolare, la solubilizzazione di parte della CO2 rende l’impasto leggermente acido e più forte il glutine. Ciò migliorerà la successiva lavorabilità dell’impasto.
Nella seconda fermentazione, detta “appretto”, si dà la forma finale all’impasto che viene lasciato per un’ora a temperatura e umidità controllate fino al raggiungimento del volume massimo .


Created by Vito Antonio Romanelli
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